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252 | LA GERUSALEMME |
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XXXII.
Allor vegg’io che dalla bella face,
Anzi dal Sol notturno un raggio scende
Che dritto là dove il gran corpo giace,
252Quasi aureo tratto di pennel, si stende:
E sovra lui tal lume e tanto face,
Ch’ogni sua piaga ne sfavilla e splende:
E subito da me si raffigura
256Nella sanguigna orribile mistura.
XXXIII.
Giacea prono non già, ma come volto
Ebbe sempre alle stelle il suo desire,
Dritto ei teneva inverso il Cielo il volto,
260In guisa d’uom che pur là suso aspire.
Chiusa la destra, e ’l pugno avea raccolto,
E stretto il ferro, e in atto è di ferire:
L’altra sul petto in modo umile e pio
264Si posa, e par che perdon chieggia a Dio.
XXXIV.
Mentre io le piaghe sue lavo col pianto,
Nè però sfogo il duol che l’alma accora;
Gli aprì la chiusa destra il vecchio santo,
268E ’l ferro che stringea trattone fuora:
Questa, a me disse, ch’oggi sparso ha tanto
Sangue nemico, e n’è vermiglia ancora,
È, come sai, perfetta: e non è forse
272Altra spada che debba a lei preporse.