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CANTO DECIMO. | 307 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Gerusalemme liberata I.djvu{{padleft:339|3|0]]
V.
Nè perchè senta inacerbir le doglie
Delle sue piaghe, e grave il corpo ed egro,
Vien però che si posi, e l’arme spoglie;
36Ma, travagliando, il dì ne passa integro.
Poi quando l’ombra oscura al mondo toglie
I varj aspetti, e i color tinge in negro,
Smonta, e fascia le piaghe, e come puote
40Meglio, d’un’alta palma i frutti scuote.
VI.
E cibato di lor, sul terren nudo
Cerca adagiare il travagliato fianco,
E, la testa appoggiando al duro scudo,
44Quetar i moti del pensier suo stanco.
Ma d’ora in ora a lui si fa più crudo
Sentire il duol delle ferite, ed anco
Roso gli è il petto e lacerato il core
48Dagl’interni avoltoj, sdegno e dolore.
VII.
Alfin, quando già tutte intorno chete
Nella più alta notte eran le cose,
Vinto egli pur dalla stanchezza, in Lete
52Sopì le cure sue gravi e nojose;
E in una breve e languida quiete
L’afflitte membra e gli occhj egri compose:
E mentre ancor dormia, voce severa
56Gl’intonò su le orecchie in tal maniera: