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326 | LA GERUSALEMME |
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LXII.
Questo è lo stagno in cui nulla di greve
Si getta mai che giunga insino al basso;
Ma in guisa pur d’abete, o d’orno leve,
492L’uom vi sornuota, e ’l duro ferro, e ’l sasso.
Siede in esso un castello: e stretto e breve
Ponte concede a’ peregrini il passo.
Ivi n’accolse: e non so con qual’arte,
496Vaga è là dentro, e ride ogni sua parte.
LXIII.
V’è l’aura molle, e ’l Ciel sereno, e lieti
Gli alberi e i prati, e pure e dolci l’onde:
Ove fra gli amenissimi mirteti
500Sorge una fonte, e un fiumicel diffonde.
Piovono in grembo all ’erbe i sonni queti
Con un soave mormorio di fronde:
Cantan gli augelli; i marmi io taccio e l’oro
504Meravigliosi d’arte, e di lavoro.
LXIV.
Apprestar su l’erbetta, ov’è più densa
L’ombra, e vicino al suon delle acque chiare,
Fece di sculti vasi altera mensa,
508E ricca di vivande elette e care.
Era quì ciò ch’ogni stagion dispensa:
Ciò che dona la terra, o manda il mare:
Ciò che l’arte condisce; e cento belle
512Servivano al convito accorte ancelle.