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52 | LA GERUSALEMME |
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LXII.
Torna l’ira ne’ cori, e gli trasporta,
Benchè debili, in guerra. Oh fera pugna;
U’ l’arte in bando, u’ già la forza è morta:
492Ove in vece d’entrambi il furor pugna!
Oh che sanguigna e spaziosa porta
Fa l’una e l’altra spada, ovunque giugna
Nell’arme e nelle carni! e se la vita
496Non esce, sdegno tienla al petto unita.
LXIII.
Qual l’alto Egeo, perchè Aquilone o Noto
Cessi, che tutto prima il volse e scosse,
Non s’accheta però; ma ’l suono e ’l moto
500Ritien dell’onde anco agitate e grosse;
Tal, sebben manca in lor col sangue voto
Quel vigor che le braccia ai colpi mosse;
Serbano ancor l’impeto primo, e vanno
504Da quel sospinti a giunger danno a danno.
LXIV.
Ma ecco omai l’ora fatale è giunta
Che ’l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta,
508Che vi s’immerge, e ’l sangue avido beve:
E la vesta, che d’or vago trapunta
Le mammelle stringea tenera e leve,
L’empie d’un caldo fiume: ella già sente
512Morirsi, e ’l piè le manca egro e languente.