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CANTO DECIMOTERZO. 75

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XXIII.


  Signor, non è di noi chi più si vante
Troncar la selva; ch’ella è sì guardata,
Ch’io credo (e ’l giurerei) che in quelle piante
180Abbia la reggia sua Pluton traslata.
Ben ha tre volte e più d’aspro diamante
Ricinto il cor chi intrepido la guata:
Nè senso v’ha colui ch’udir s’arrischia
184Come, tonando, insieme rugge e fischia.

XXIV.


  Così costui parlava. Alcasto v’era,
Fra molti che l’udian, presente a sorte:
Uom di temerità stupida e fera:
188Sprezzator de’ mortali e della morte:
Che non avria temuto orribil fera,
Nè mostro formidabile ad uom forte,
Nè tremoto, nè folgore, nè vento,
192Nè s’altro ha il mondo più di violento.

XXV.


  Crollava il capo, e sorridea dicendo:
Dove costui non osa, io gir confido:
Io sol quel bosco di troncar intendo
196Che di torbidi sogni è fatto nido.
Già nol mi vieterà fantasma orrendo,
Nè di selva o d’augei fremito o grido.
O pur tra quei sì spaventosi chiostri
200D’ir nell’inferno il varco a me si mostri.

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