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Il monosillabo affermativo partito dalla tribuna delle vergini era stato l’ultimo sospiro vitale di Fidelia. La giovinetta, nel profferirlo, era caduta nelle braccia delle amiche come un giglio reciso.
— Morta! morta! — gridavano le donne.
— Uccisa dalla menzogna! — ruggì l’Albani insorgendo e accennando al Gran Proposto.
— La prova galvanica! la prova galvanica! — urlarono mille voci dall’emiciclo.
Il Presidente degli Anziani sollevò la mazza di primo ammonito per sedare il tumulto. E frattanto, in men che io nol dica, quattro matrone di ufficio trasportarono il corpo di Fidelia nel centro della sala, e il chirurgo primate del tribunale le applicò il pungiglione galvanico all’occipite.
La folla irruppe dalle sbarre. Seniori, Anziani, bidelli, subalterni, spettatori, si pressarono compatti intorno al banco di risurrezione. L’Albani stringeva nelle sue la mano di Fidelia.
Il Gran Proposto piangeva desolato ai piedi della figlia.
Al tumulto scapigliato era succeduto come per incanto il silenzio della riverenza e della aspettazione.
La puntura galvanica non tardò molto ad agire. Fidelia si riscosse...
— Discendi in te stessa — disse il primate di chirurgia parlandole all’orecchio; — visita il tuo cuore e i tuoi visceri, e dimmi qual fu la sincope che ti ha colpita.
Le labbra di Fidelia si agitarono e proffersero la parola morte.
Il primate le applicò il pungiglione galvanico alla fronte.
— Puoi tu asserire — domandò l’inquirente — che Primo Albani abbia avuto teco un colloquio nella notte dal ventisette al ventotto settembre?