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466 ATTO SECONDO

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SCENA XII.

Isidoro, poi Grillo in tabarro, ed un Giovine colla sportella. Isidoro passeggia da se, guardando dietro Tonino; poi guardando la finestra di Checchina, smaniando incerto che cosa abbia da risolvere.

Grillo. Dè qua, dè qua; tolè, dè qua, basta cussì.

Semo debotto a casa; deme la sporta a mi.
(dà alcuni soldi al giovine)
Giovine. Fazzo quel che volè; tolè, sior Grillo caro.
Vardè colla sportela che no ve onzè el tabaro.
Grillo. Cossa voleu che fazza? I vol cussì sta zente.
Giovine. Fè pur quel che volè; mi no m’importa gnente.
(parte)
Grillo. Sia malignazzo! Almanco che nissun me vedesse.
(guardando intorno, scopre Isidoro)
Oh poveretto mi! me la fazzo in braghesse.
(mostrando paura)
Presto, che vaga in casa. Nol vôi gnanca vardar.
Che i me averzisse presto.
Isidoro.   Ferma ti. Dove andar?
Grillo. A casa, sior.
Isidoro.   To casa star quella?
(accenna la casa suddetta)
Grillo.   Sì, star quella.
Isidoro. Zovena che mi vista, stara de ti sorella?
Grillo. Sior no.
Isidoro.   Patrona?
Grillo.   Giusto. (Songio mo vegnù a ora?) (da sè)
Isidoro. Donca de quella casa stara ti servitora.
Grillo. Sior no.
Isidoro.   No servitora? Come portar sportella?
Grillo. Caro sior, se portara, l’ha me l’ha dito ella.
Isidoro. Chi star ela?
Grillo.   (Me sento debotto a vegnir mal). (da sè)

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