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276 ATTO QUINTO

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SCENA XI.

Donna Livia e donna Rosa.

Livia. Deh per pietà, germana, dite allo zio sagace,

Che non mi tratti austero, che non mi parli audace.
Sincero è il labbro mio, non ardirei mentire;
Ma il dir, così dev’essere, farmi potria pentire.
Rosa. Eh via, rasserenatevi, che farlo alfin vi lice:
Potete, se vi aggrada, potete esser felice.
Poco vi vuole il cuore a impietosir del zio;
Sposo non mancheravvi, che possa star col mio;
E se vi cal ch’io ceda...
Livia.   No, suora mia, non cura
Il cuor da voi quel dono che deve alla natura.
Non mi svegliate in seno pensier troppo funesti.
Quello che ho detto, ho detto; i miei pensier son questi.
Rosa. Non so che dir, secondi le vostre brame il nume.
Felicità vi prego. (Conosco il suo costume;
S’è ver che al nuovo stato passar voglia contenta.
Il cielo la consoli, innanzi che si penta). (da sè, parte)

SCENA XII.

Donna Livia, poi Cecchino.

Livia. Tant’è, vo’ che si veda che ho spirito e ragione

Di sostener capace la mia risoluzione.
Chi in un ritiro a forza veder potriami oppressa,
Se a chiudermi negassi condurmi da me stessa?
E chi mi sforza andarvi? L’ho detto, e vo’ una volta
Disingannar chi credemi volubil donna e stolta.
Alfin di donna Rosa le nozze hansi concluse;
E me, nata primiera, zio sconoscente escluse.
Vano sarà l’oppormi, deggio soffrire il torto,
E sol dal rassegnarmi sperar posso un conforto.

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