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416 ATTO TERZO

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Fabrizio.   Ho da soffrir? pazienza.

Giuseppina. (Di una femmina scaltra tanto il poter prevale,
Che gli empiti raffrena d’un animo bestiale). (da sè)
Fabrizio. Nipote, io vi cercava; alfin vi ho ritrovata.
Vengo a darvi la nuova che or or vi ho maritata.
Sarete alfìn contenta di uscir da queste porte.
Ed il signor Pasquale sarà vostro consorte.
Giuseppina. Quel vecchio?
Dorotea.   Quel cadavere?
Fabrizio.   Lo prenderà.
Dorotea.   Nol vuole.
Fabrizio. Sì, al corpo della luna.
Dorotea.   No, al cospetto del sole.
Fabrizio. Chi comanda?
Valentina.   Signore, con sua buona licenza.
Non si ha colle fanciulle da usar la prepotenza.
Ella vuol maritarsi come le pare e piace.
Un zio, s’è galantuomo, lo dee soffrire in pace.
Ella per maritarsi ha pronto un altro sposo.
Fabrizio. E chi è costui?
Valentina.   Fulgenzio, che in quelle stanze ascoso.
Fabrizio. Come!
Giuseppina.   Così parlate?
Dorotea.   È questo il vostro impegno?
Valentina. Io credea di far bene.
Dorotea.   Meritereste un legno.
Valentina. Piano, signora mia, non mi parlate altera.
Ho fatto quel che ha fatto ella con Baldissera.
S’ella lo fe’ per zelo, lo zelo a me si aspetta;
Se per astio lo fece, lo faccio per vendetta.
Ma io giustificata mi son col mio padrone;
Ella, se può, s’ingegni coll’arte e la ragione.
E se i disegni miei le son riusciti amari,
Col suo sublime ingegno a provocarmi impari.
Giuseppina. Perfida!

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