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L'OSTERIA DELLA POSTA 249

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Cameriere. Eccola lì, signore: è quella.

Barone. Benissimo, non occorr’altro.

Cameriere. Vuol ella uno stanzino nell’appartamento di sopra?

Barone. Dove si pranza?

Cameriere. In questa sala.

Barone. Bene, resterò qui; io non ho bisogno di camera.

Cameriere. Si serva, come comanda. (parte)

SCENA VIII.

Il Barone solo.

Nasca quel che sa nascere, vo’ prendermi almeno questa soddisfazione. Vo’ sapere se la mal’azione che mi vien fatta, proviene dal Conte, o da sua figliuola. Partir senza dirmi nulla? Permettere ch’io vada al solito per visitar la Contessa, e farmi dire da un servitore: sono partiti? La sera innanzi si sta insieme in conversazione, e non mi si dice: domattina partiamo? è un insulto, è un’inciviltà insopportabile.

SCENA IX.

Il Conte senza spada, ed il suddetto.

Conte. (Che vedo? qui il baron Talismani?) (stando sulla porta della sua camera.)

Barone. (Non so se più m’interessi l’amore, o il disprezzo, o la derisione).

Conte. Signor Barone, la riverisco divotamente. (sostenuto)

Barone. Servo suo, signor Conte. (sostenuto)

Conte. Che fa ella qui, signore?

Barone. Il mio dovere. Venni per augurarle il buon viaggio, e per usare seco lei quella urbanità, che non si è degnata di praticare con me.

Conte. Vossignoria potea risparmiarsi l’incomodo. So che per me non si sarà data tal pena.

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