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canto undecimo 273

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103
  E inver sono infiniti i Cristian vostri
che voi chiamate «turchi rinegati».
Fioccano a torme sempre a’ templi nostri,
non senza alcuni preti e alcuni frati.
Forse annoiati son de’ paternostri,
o poveri o viziosi o disperati;
ma forse anche i scrittor mal cauti fanno
cotesti disertor con vostro danno. —
104
  Marfísa nelle spalle si rannicchia,
perocché quel discorso ha del preciso.
Ecco un che gentilmente al palco picchia:
è il ciurmador che avuto avea l’avviso.
Marfisa nel tabarro s’incrocicchia,
mettendo pria la maschera sul viso.
Si desta Ipalca, e anch’ella prestamente
s’è mascherata alquanto goffamente.
105
  In bocca la bizzarra un sassolino
si getta per confonder la favella,
caso che il ciurmador per rio destino
fosse il guascon, che mai non vorrebb’ella;
ma ci vuol flemma, che insino a un puntino,
al viso, al favellare, alla gonnella,
alla disinvoltura, ed in sostanza
è Filinoro: è tronca ogni speranza.
106
  Bolle il sangue a Marfísa, e le dá d’urto
nella pia-madre, e quasi esce dal cerchio,
siccome il brodo nel paiuol ch ’è surto
pel troppo foco e spinge insú il coperchio.
Un uomo, a cui vien fatto il maggior furto,
che ha gran famiglia e nulla di soperchio,
non ha meta dolor di quel che prova
Marfisa, che il pidocchio alfin ritrova.

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