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canto undecimo 277

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  Disse il guascon: — È vero, è vero, è vero.
Era costei di famiglia elevata,
Marfisa detta, sorella a Ruggero,
morta per me, basita, spasimata.
Per dirvi tutto, io l’aveva nel zero,
né so dir come l’abbia sopportata,
che le puzzava il fiato ed era pazza, ’
ed anche anche non molto ragazza. —
120
  Or qui Marfisa lascia ogni contegno,
allarga il suo tabarro, e strigne il pugno,
gridando: — O figlio di puttana, indegno! —
gli sciorina una nespola nel grugno.
La maschera le cade a questo segno,
la faccia ha calda piú che al sol di giugno,
e gli schiaffi e i cazzotti replicando:
— Becco, ruffian! — gridava trangosciando.
121
  Ipalca è anch’essa smascherata e grida:
— Ponete, Dio, la vostra santa mano. —
Ferrali sembra incantato da Armida
e non intende questo caso strano.
— Olá, zitti, si calmi e si divida, —
gridava dal palchetto ogni pagano;
il teatro è commosso in tutti i lati,
e i comici si stan co’ visi alzati.
122
  Il guascon l’influenza vuol fuggire
e del palchetto aperto ha giá la porta:
di stizza la bizzarra ecco svenire;
nelle braccia d’Ipalca è mezza morta.
Ferraú non rifina di stupire,
e faceva la bocca d’una sporta;
ma divenne peggior la circostanza,
che il caso non è ancor brutto a bastanza.

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