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atto quarto. 111

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  Anche reo mi condanna, (pensa) Nè morire,
  Nè fuggir deggio. (pensa) Un sol rimedio resta...

Pant. Via, presto dixè; che remedio ghe, fuora della fuga, che ve esibisse?

Jen. Sì, caro amico, un sol rimedio resta
  Per non fuggir, per non morir infame,
  Per far palese l’innocenza mia.
  Rimedio per me peggio della morte,
  Che le più interne viscere m’agghiaccia
  Solo in pensarlo, (a parte) Alfine, oh Dio! si ceda
  All’empio mio destin. Di me non resti
  Un’infame memoria tra le genti.

Pant. Che arcani? che remedi? eh, caro fio, no ve perde in zavariamenti, o se ghe xe sto remedio, uselo subito, perchè la morte ve xe sora la testa, e me par de sentir...

Jen. (risoluto) Non più, liberal vecchio. Ecco il
                                                         rimedio.
  Ite a Millo, fratel; ditegli, ch’io
  Pria di morir, di favellargli bramo.
  Che, se tra l’opre mie, nella sua mente
  Richiamandole tutte, gratitudine
  Merita alcuna, non mi nieghi grazia
  Di potergli parlar prima ch’io mora.
  Più non potrete dirmi allor, ch’io fugga;
  Più infame non morrò. Paghi sarete
  Di vedermi innocente.
Pant. (con trasporto ed allegrezza) Diseu da seno?
Jen.                               Il vero io dico.
  Ite al fratello. Venga. Ei sarà pago.

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