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atto terzo 267

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Zel. Eh, mia Signora,
  È l’età vostra fresca, che alterigia
  Vi desta in cor. Verrà l’età infelice,
  Che i concorrenti mancheranno, e allora
  Vi pentirete invan. Che mai perdete?
  Qual fanatica gloria, e qual’onore?
Adel. (che a poco a poco si sarà fatta innanzi
  ascoltando, interrompendola con gravità
)
  Chi bassamente è nata non ha idee
  Da quelle di Zelima differenti.
  Scusa, Zelima. D’una Principessa,
  Che in un Divan con pubblico rossore,
  Dopo un corso di gloria, e di trofei,
  Da un ignoto sia vinta, mal conosci
  La necessaria doglia, e la vergogna.
  Io con questi occhi vidi l’esultanza
  Di cento maschi, e un beffeggiar maligno
  Sugli enigmi proposti, quasi fossero
  Sciocchi enigmi volgari, e n’ebbi sdegno,
  Perch’io l’amo da ver. Che mi dirai
  Della sua circostanza? Ella è ridotta
  Contro l’istinto suo, contro sua voglia,
  Sforzatamente a divenir consorte.
Tur. (impetuosa) Non m’accender di più.
Zel. Ma qual sventura
  È divenir consorte?
Adel. Eh taci, taci.
  Obbligo non hai tu d’intender, come
  Un magnanimo cor de’ risentirsi.
  Non sono adulatrice. E ti par poco,

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