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184 | I Vicerè |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|I Vicerè.djvu{{padleft:186|3|0]]Ghiande per assistere a quella visita. Mancavano però la zia Chiara e il marchese: sicuri d’avere il tanto aspettato e desiderato figliuolo, un triste giorno la gravidanza era andata in fumo; essi portavano da quel momento il lutto della speranza perduta. C’era invece una bambina di sei anni che guardava il monachino con grandi occhi curiosi e una balia che teneva in braccio un lattante.
— Le tue cugine, le figlie dello zio Raimondo, — spiegò la principessa.
— E la zia Matilde?
— Sta poco bene...
Ma donna Ferdinanda troncò quegli stupidi discorsi, e prese a interrogare il nipotino intorno ai compagni, alla vita del monastero, all’impiego della giornata, intanto che Frà Carmelo tesseva l’elogio del ragazzo alla madre.
— Ti faresti monaco? — gli domandò il principe, per chiasso. — Ci staresti sempre, al convento?
— Sì, — rispose egli, per non dargliela vinta. — È bello stare a San Nicola!...
I monaci infatti facevano l’arte di Michelasso: mangiare, bere e andare a spasso. Levatisi, la mattina, scendevano a dire ciascuno la sua messa, giù nella chiesa, spesso a porte chiuse, per non esser disturbati dai fedeli; poi se ne andavano in camera, a prendere qualcosa, in attesa del pranzo, a cui lavoravano, nelle cucine spaziose come una caserma, non meno di otto cuochi, oltre gli sguatteri. Ogni giorno i cuochi ricevevano da Nicolosi quattro carichi di carbone di quercia, per tenere i fornelli sempre accesi, e solo per la frittura il Cellerario di cucina consegnava loro, ogni giorno, quattro vesciche di strutto, di due rotoli ciascuna, e due cafissi d’olio: roba che in casa del principe bastava per sei mesi. I calderoni e le graticole erano tanto grandi che ci si poteva bollire tutta una coscia di vitella e arro-