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250 I Vicerè

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|I Vicerè.djvu{{padleft:252|3|0]]miglie avevano ritirato i loro ragazzi in quel trambusto, vi fu grande aspettativa: Menotti veniva da loro. Giovannino Radalì, Pedantoni, tutti i liberali lo guardarono con gli occhi spalancati, come uno piovuto dalla luna, senza saper dire una parola, mentre egli li accarezzava. Ma, nel giardino, Giovannino corse a cogliere la più bella rosa e gliel’offerse, chiamandolo: «Generale!...» Consalvo se ne stette in disparte, aggrottato come lo zio don Blasco, con la coda tra le gambe.

— Adesso non fai più il sorcio? gli dissero i compagni quando Menotti andò via. — Hai paura che ti taglino la coda?

Egli non rispose. Suo padre, rassicurato sull’andamento della cosa pubblica, scese un giorno a trovarlo.

— Non ci voglio più stare, — gli disse il ragazzo; — tanti se ne sono andati...

Voglio?... — rispose il principe, con voce dura. — Chi t’ha insegnato a dire voglio?... Per ora hai da star qui.

E il duca, non solo approvò quella decisione, ma indusse il nipote a tornarsene definitivamente con la famiglia in città, giacchè non c’era pericolo di sorta, e quell’ostinata lontananza, quelle dimostrazioni di paura potevano esser prese in mala parte dal popolo. Arrivarono tutti dopo qualche giorno, il marchese e la marchesa soli e gongolanti nella loro carrozza che andava al passo, per riguardo della gravidanza di Chiara finalmente confermata ed arrivata al sesto mese; Lucrezia che metteva il capo ogni minuto allo sportello quando i posti di guardia facevano sostare la vettura, parendole di riconoscere Giulente in ogni soldato.

Ma Benedetto non era più in Sicilia. Nei primi giorni aveva aiutato lo zio Lorenzo e il duca a ordinare la rivoluzione, arringando il popolo, parlando nei circoli con una eloquenza che tutti ammiravano, scrivendo articoli nell’Italia risorta fondata dallo zio per propugnare l’annessione al Piemonte; poi, nonostante l’opposizione del padre e della madre, s’era ingaggiato garibaldino,

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