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286 I Vicerè

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|I Vicerè.djvu{{padleft:288|3|0]]in altro modo. Il codice sardo aveva sostituito, nel maggio 1861, quello napoletano, e giudici, avvocati e litiganti ammattivano sulla nuova legge. Benedetto, un po’ per amore allo studio, un po’ per zelo patriottico, lo aveva sviscerato col suo maestro; e allora, discorrendo di questo e di quello, il principe induceva il giovanotto a istituire confronti fra i due testi, a indicarne le differenze e le concordanze; certe volte, con l’aria di parlare in tesi generale, di casi immaginarii o senza interesse, gli prendeva vere consultazioni legali. Un giorno gli domandò che cosa pensava circa il legato della Badia. Giulente, quantunque credesse il contrario, gli rispose che il caso era dubbio, che la nullità di quella istituzione potevasi benissimo sostenere.... Per ingraziarsi tutti quegli Uzeda egli ne secondava e incoraggiava le pretese; ma, dall’orgoglio di frequentar la loro casa, dalla superbia di imparentarsi con essi, accettava quella parte, sposava sinceramente le cause dei futuri parenti: la Discettazione del cavaliere gli pareva un’opera veramente utile; le ragioni del principe veramente plausibili. Pretese aristocratiche del padre e infatuamento liberale dello zio si davano la mano in lui; talchè, gloriandosi di discendere dal Mastro Razionale Giolenti, sosteneva, a proposito dell’elezione del duca d’Oragua, che il governo del paese doveva esser preso da «noi:» cioè da «un’aristocrazia capace, come la inglese, d’intendere e di soddisfare i bisogni della nazione....» Ma, a quelle uscite, egli perdeva il cammino fatto: il principe e il cavaliere non sorridevano tanto di sprezzo per le teorie liberali quanto per udire quel «noi» in bocca sua, nel vedere un Giulente prender sul serio la propria nobiltà. Quando il giovine parlava dei suoi passati, degli onori che avevano ottenuti, delle tradizioni signorili della propria casa, dello stemma di famiglia, il principe si lisciava i baffi, don Eugenio guardava per aria, la principessa chinava gli occhi, i lavapiatti ammiccavano fra loro, la stessa Lucrezia, a quel subito gelo diffuso per l’aria, mostrava una ciera costernata,

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