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I Vicerè | 419 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|I Vicerè.djvu{{padleft:421|3|0]]altri desiderii, altre ambizioni. Convertiti in bella rendita sul Gran Libro i quattrini portati via dal convento, il monaco aveva finalmente visto avverarsi il sogno della sua giovinezza: aver del suo, essere capitalista. Allora aveva quasi dimenticato l’odio contro il rivale nipote, non s’era più curato nè di lui nè degli altri. Ma l’appetito vien mangiando, dice il proverbio, e don Blasco non si contentava di quelle poche migliaia d’onze, voleva arricchire per davvero, studiava il modo di batter moneta. Per questo voleva assaggiare i beni delle Cappellanie e dei Benefizii; e vedendo che Giacomo gli dava erba trastulla e nonostante le promesse iniziava la causa per conto proprio, era stato l’anima della lega ordita contro di lui, mettendo in opera il sistema da lui adoperato contro i fratelli. Chi la fa l’aspetta, dice un altro proverbio, e il principe, che s’era fatto pagare da Raimondo e da Lucrezia per dar loro il suo appoggio, aveva dovuto chiuder la bocca allo zio perchè questi, che non aveva mai avuto peli sulla lingua, s’era messo a cantare che la faccenda della morte della principessa non era tanto liscia, e che aver costretto la «povera Margherita» a scappare a Cassone mentre stava così male ed aveva anzi i primi sintomi del colera, era stato un voler sbarazzarsi di lei, dopo averle dettato un testamento nel quale s’era fatto lasciare ogni cosa, e niente ai figli; e che la freddezza di Consalvo non era poi senza ragioni, e che.... e che.... Allora il principe aveva riconosciuto i diritti della parentela alla spartizione dei beni, e tutti s’erano placati. Placati in apparenza, perchè i rancori ribollivano sordamente. Giacomo non se la poteva prendere col monaco, per non disgustarselo, adesso che aveva quattrini, nè, per la stessa ragione, con la zia Ferdinanda; tanto meno col duca alla cui autorità di deputato ricorreva per essere assistito contro il fisco rapace. Ma sfogava contro tutti gli altri, incagnato, una furia. L’agente delle tasse, specialmente, un certo Stravuso, era il suo incubo: oltre che di ingordo, costui aveva la fama di terribile jettatore, e il principe, pi-