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460 | I Vicerè |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|I Vicerè.djvu{{padleft:462|3|0]]luogo, quando era l’arbitro della situazione. Adesso che vuole? Chi è causa del suo mal, pianga sè stesso!...
E, fattosi socio del Gabinetto di lettura, ci andava tutti i giorni col professore per saper le notizie e assicurarsi contro il timore di dover restituire la roba di San Nicola; pertanto vociava contro i tiepidi, sosteneva a spada tratta il fratello, leggeva ad alta voce gli articoli di fuoco di Giulente, approvandoli, ammirandoli:
— Eh? Come scrive mio nipote! Questo si chiama scrivere!
Ma la recente apostasia di don Blasco, l’antico tradimento del duca, non toglievano al resto degli Uzeda la stima dei puri; presso la Curia, specialmente, la loro condotta, la fedeltà prestata ai sani principii, la costante devozione alla buona causa li facevan considerare come figli prediletti. Un giorno, nonostante la tristizia dei tempi, Monsignor Vescovo si recò da Ferdinando per restituire la visita fattagli da don Lodovico, per avere notizie dell’infermo e consolare l’afflitta famiglia. Tutti andarono intorno al prelato e gli baciarono la mano; la principessa, dalla commozione, aveva le lagrime agli occhi.
— Che notizie del nostro caro ammalato?
— Non va bene, Monsignore, — rispose Lodovico, sospirando di tristezza. — Abbiamo persino dovuto dispacciare a nostro fratello Raimondo...
— Ma non ci ha da esser proprio rimedio?
— Abbiamo provato tutto: l’acqua di Lourdes, le medaglie di Loreto...
— Bene, bene... ma avete chiamato un dottore? Che farmaci gli avete dato?
— Oramai!... — parve voler dire Lodovico, aprendo le braccia. — La vita del nostro povero fratello non è più nelle mani degli uomini...
Egli non disse che Ferdinando era impazzito del tutto. La sorda diffidenza destatasi in lui contro i fratelli, il secreto sospetto che non gli aveva consentito di attribuire all’affezione le loro premure fastidiose,