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I Vicerè | 503 |
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Invece non pensavano ad altro, divorati dalla curiosità, dalla cupidigia dei quattrini del monaco. Dopo la vecchia principessa, don Blasco era il primo Uzeda danaroso che se ne andava; Ferdinando non era contato: aveva poca roba e quella poca era stata carpita dal principe. Il Cassinese, invece, tra i due poderi, la casa e i risparmii lasciava quasi trecento mila lire, e tutti speravano d’averne qualcosa. Se non c’era testamento i due fratelli Gaspare ed Eugenio e la sorella Ferdinanda avrebbero ereditato; e la zitellona, dopo una vita d’inimicizia, aspettava d’arruffar la sua parte. Tutti gli altri, al contrario, aspettavano un testamento che li nominasse. Il principe dichiarava piano all’orecchio dello zio duca che non sperava nulla per sè, ma qualcosa per Consalvo, e di mezz’ora in mezz’ora spediva al palazzo qualcuno dei camerieri della parentela, accorsi coi padroni, perchè chiamassero suo figlio. Ma il principino dapprima aveva risposto che era a letto, poi che dovevano dargli il tempo di vestirsi, poi che stava per venire, e finalmente gli ultimi messi non lo trovarono più. Se n’era andato al Circolo Nazionale per assistere all’adunanza d’una commissione incaricata di studiare il piano regolatore della città. Arrivò finalmente quando attaccavano le mignatte all’agonizzante. Il principe non gli rivolse neppure la parola e prese invece in disparte Garino che in quel momento tornava per la quarta o la quinta volta. Poi il marito della Sigaraia entrò nella camera del moribondo, che sua moglie e le ragazze non lasciavano un momento. Invece di giovare, le mignatte affrettarono la catastrofe; Garino affacciossi sull’uscio, annunziando:
— Il Signore l’ha chiamato con sè!
Tutti entrarono nella camera del morto. Era immobile, stecchito, con gli occhi chiusi, con le tempie butterate dai morsi delle mignatte. L’odore nauseante del sangue appestava la camera, come una beccheria; e c’era per terra e sui mobili una confusione straordinaria: panni disseminati qua e là, catinelle piene d’acqua, caraffe di