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526 | I Vicerè |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|I Vicerè.djvu{{padleft:528|3|0]]giavano il 19 marzo, giorno di San Giuseppe, in loro onore; egli ripetè l’esposizione del bandierone e dei lumi anche in quell’occasione, cercò apposta i più noti repubblicani per dir loro: «Io non capisco l’esclusivismo di certuni: senza Mazzini il fuoco sacro si sarebbe spento; e senza Garibaldi, chi sa, Francesco II sarebbe ancora a Napoli.»
Nè credeva alla sincerità della fede altrui. Monarchia o repubblica, religione o ateismo, tutto era per lui quistione di tornaconto materiale o morale, immediato o avvenire. Al Noviziato aveva avuto l’esempio della sfrenata licenza dei monaci che avevano fatto voto dinanzi al loro Dio di rinunziare a tutto; in casa, nel mondo, aveva visto che ciascuno tirava a fare il proprio comodo sopra ogni cosa. Non v’era dunque nient’altro fuorchè l’interesse individuale; per soddisfare il suo proprio egli era disposto a giovarsi di tutto. Del resto, il sentimento ereditario della propria superiorità non gli permetteva di riconoscere il male di questo scettico egoismo: gli Uzeda potevano fare ciò che loro piaceva. Il conte Raimondo aveva distrutto due famiglie; il duca d’Oragua s’era arricchito a spese del pubblico, il principe Giacomo spogliando i propri parenti; le donne avevano fatto stravaganze che confinavano con la pazzia: se egli dunque s’accorgeva talvolta d’essere in fallo, secondo la morale dei più, pensava che in fin dei conti faceva meno male di tutti costoro.
IV.
Il principe Giacomo tardò molto a riaversi interamente dal colpo che l’ultima spiegazione col figlio gli aveva procurato. Minacciato di una congestione cerebrale, si condannò da sè stesso, pel terrore di morire di subito, a una dieta magra che gli impoverì il sangue. Debole, irritabile, divenne più di prima il terrore della casa, e