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III


I pingui campi adesso lasciati, volgevano il passo
ver la città, Filèo, figliuolo d’Augèa, con Alcide.
Ed ecco, giunti appena che fur su la strada maestra,
— aveano a ratti passi percorso l’angusto sentiero
che da la stalla via via si stendeva traverso le vigne,
poco visibile, in mezzo al tenero verde del bosco —
quivi al rampollo di Giove supremo fra tutti i Celesti,
che dietro ai passi suoi moveva, il figliuolo d’Augèa
parlò, voltando lieve la fronte su l’omero destro:
«Da tanto e tanto tempo, di te, straniero, parlare
udii, se pure quello tu sei: me ne toma il ricordo.
Poi che una volta un uomo sul fiore degli anni, un Achèo,
d’Èlice giunse, città dell’Argòlide, sita sul mare;
ed esso raccontò, dinanzi a moltissimi Epèi,
che un uomo d’Argo, in sua presenza, un orrendo leone
aveva ucciso, un mostro feroce, terror dei bifolchi,
che la spelonca aveva nel bosco di Giove Nemèo.
«Non so se proprio d’Argo la sacra — diceva — giungesse,
oppur se la città di Tirinto abitasse, o Micene».
Anche la stirpe sua diceva: diceva che fosse
il suo progenitore, se mal non ricordo, Persèo.
Ora, credo io, niun altri degli Agialèi, tale gesta
compieva, se non tu: la pelle di fiera che il fianco
ti copre, chiara dice l’impresa del saldo tuo braccio.

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