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DEL TANSILLO. 27

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LXXII.


  Ma se m’incontro a terren duro troppo,
Non mi vergogno d’adoprar gli aratri;
Non di tronco o di pietra ascoso intoppo
572Può ritardarmi ch’io nol rompa e squatri,
Anzi più forte vò, con più v’intoppo:
E benchè soglian dir, che i terreni atri
Sian più fecondi, dove il seme cada,
576Il bianco a me viepiù, che il nero aggrada.

LXXIII.


  Con un vomero tal la terra sveno,
Che egual nel campo, Cerere non folce;
Tal ch’è contenta, quando l’ha nel seno,
580Ne ’l vorría mai lasciar, tanto egli è dolce;
Piega rigidamente il bel terreno,
E con la stessa piaga il sana e molce;
Quanto più il solco fa profondo e largo,
584Tanto più dolce il seme entro vi spargo.

LXXIV.


  I buoi che danno al vomero vigore,
Stan notte e giorno sotto il giogo a prova,
Nè per soverchio sparger di sudore,
588Nella lor pelle piega unque si trova;
Anzi il trar dell’aratro a tutte l’ore,
Tanto invaghisce lor, tanto lor giova,
Che vorrían tutti entrar col vomer dentro,
592E passar della terra infino al centro.

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