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gl’ipogei. 31

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In un’altra locanda mi s’è indicato il ricovero prediletto dei fanciulli da sette a dodici anni, orfani, o abbandonati dalle loro famiglie, che non possono campare se non con mezzi illeciti.

Costoro compongono una famiglia da sè. Chi siano i loro padri, nessun d’essi lo sa e pochissimi conoscono la madre. Non sono nemmeno tutti di Napoli, ma molti, veri nomadi, delle provincie. Ostensibilmente sono cenciaiuoli o raccoglitori di ossa e di vetri rotti o mendicanti, o vanno alle osterie o alle case, ove comperano i residui dai garzoni e dalle serve; ma sono veramente tutti al servizio della camorra, cioè apprendisti camorristi; rubano fazzoletti, nel primo stadio, e cibi esposti dai banchi e dalle botteguccie, e la preda portano agli speciali loro capi camorristi; e hanno un gergo particolare, onde avvertono i maestri ladri dell’avvicinarsi della Polizia, e alla loro tenera età sanno distinguere un poliziotto amico da uno nemico. Nudo il capo, scalzi i piedi, coperti di piaghe, sotto i pochi cenci che indossano, portano coltelli e stili che porgono al bisogno ai loro capi.

Prima di mezzanotte, questi miserelli non tornano alla locanda; ogni vizio, anche quelli innominabili, è loro conosciuto e da loro praticato; i grandi vendono i piccoli sotto la denominazione di guagliuni.

Queste locande dei fanciulli sono la culla del delitto, la prima scuola o l’asilo infantile; sono le carceri giudiziarie, ove ammucchiati crescono nutriti nell’ozio senza ombra di vigilanza.

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