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l’edera 107

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— Piuttosto mi sdraio sotto un albero e mi lascio morir di fame.

Cammina, cammina. Il cielo era triste, annuvolato; e la terra assetata, gli alberi polverosi, le roccie aride, aspettavano in silenzio, pazientemente, la pioggia promessa. Non si muoveva una foglia; non s’udiva, per il paesaggio livido e giallo, una voce umana, un grido di viventi. Dove andare, se tutto il mondo era per Paulu simile a quel luogo deserto? Era finita: finita davvero.

Cammina, cammina; il cavallo docile e pensieroso trottava, e quando vedeva qualche varco nei muriccioli delle tancas non esitava ad oltrepassarlo, in cerca d’una scorciatoia. A un tratto, mentre appunto attraversava una scorciatoja, nelle vicinanze del paesetto di don Peu, Paulu s’udi chiamare da una voce che gli parve di conoscere. Il cavallo si fermò. Un uomo alto e grosso, con una lunga barba rossastra, e un ragazzetto lacero e selvaggio che pareva uno zingaro, s’avanzavano rapidamente.

— Don Paulu, don Paulu? — gridava l’uomo, ansante e stanco.

Paulu guardò e vide Santus, il pastore che la voce pubblica accusava di parricidio: il ragazzetto era suo figlio.

— Come, l’avete ritrovata finalmente questa buona lana? — domandò Paulu.

Santus prese il ragazzo per le spalle e lo scosse ruvidamente.

— Ho fatto due volte il giro della Sardegna a piedi, ma spero di morire non disonorato. Eccolo

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