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— Vattene, vattene e coricati.

Intanto, assieme a Ghisparru ed a Giame, s’affaccendava ad accomodare i cavalli in una loggia vuota, legando al collo delle bestie e introducendo il loro muso entro sacchette colme di paglia. Bellia seguiva barcollando, lasciando intorno a sè un orribile odore di liquori.

— Voi non mi riconoscete — disse al vecchio. — Ebbene, ve lo dirò io chi sono. Sono Bellia Fava, quel servo di Antonio Dalvy, quello che ha comprato quella giumenta che vi ha regalato quel signore pazzo di terraferma. —

Il vecchio spalancò gli occhi, fece un moto strano; ma tosto si ricompose e disse:

— Pazzo sei tu, occhio di vipera, non quel signore: va, va; va e coricati.

— Va, va — ripeteva anche Giame, chinandosi e sbattendosi l’orlo dei pantaloni.

A forza di sentirselo dire, l’ubbriaco parve suggestionato dall’idea d’andarsi a coricare.

— Sì, sì, vado e mi corico sotto una macchia; sì, andrò, e vomiterò il vino e l’acqua ardente che ho in corpo, ma devo vomitare anche altre cose. Bene, riparleremo: vi cercherò stanotte. —

E se ne andò.

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