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OTTAVO 143

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LV.


Anima bella, disse, e dormigliosa,
  Che paventi? che miri? I’ son la Luna
  Ch’a dormir teco in questa piaggia erbosa,
  444Amor, necessità guida, e fortuna.
  Tu non ti conturbar: siedi e riposa;
  E nel silenzio della notte bruna
  Pensa occultar l’ardor ch’io ti rivelo,
  448O di sperimentar l’ira del cielo.

LVI.


O pupilla del mondo, in cui la face
  Del sol s’impronta, pastorello indegno
  Son io, disse il garzon: ma se ti piace
  452Trarmi per grazia fuor del mortal segno,
  Vivi sicura di mia fè verace;
  E questo bianco vel te ne sia pegno,
  Ch’a mia madre Calice Etlio già diede,
  456Mio padre, in segno anch’ei della sua fede.

LVII.


Così dicendo, un vel candido schietto
  Che di gigli di perle era fregiato,
  E ’l tergo in un gli circondava e ’l petto
  460Giù dalla spalla destra al manco lato,
  Porse in dono alla Dea ch’ogni rispetto
  Già spinto avea del cor tutto infiammato;
  E come fior che langue allor ch’agghiaccia,
  464Si lasciava cader nelle sue braccia.

LVIII.


Vite così non tien legato e stretto
  L’infecondo marito olmo ramoso,
  Nè con sì forte e sì tenace affetto
  468Strigne l’edera torta il pino ombroso;
  Come strigneansi l’uno all’altro petto
  Gli amanti accesi di desio amoroso.
  Saettavan le lingue intanto il core
  472Di dolci punte che temprava Amore.

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