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DECIMO 183

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LI.


E tanto s’infervora e si dibatte
  In quelle ciance sue piene di vento,
  Ch’eccoti l’antimonio lo combatte,
  412E gli rivolta il cibo in un momento.
  Rimangono le genti stupefatte;
  Ed egli vomitando, e mezzo spento
  Di paura, e chiamando il confessore,
  416Dice ad ognun ch’avvelenato more.

LII.


Il Coltra e ’l Galìano, ambi speziali,
  Correan con mitridate6 e bolarmeno;
  E i medici correan cogli orinali,
  420Per veder di che sorte era il veleno.
  Cento barbieri, e i preti coi messali
  Gli erano intorno, e gli scioglieano il seno,
  Esortandolo tutti a non temere,
  424E a dir devotamente il miserere .

LIII.


Chi gli ficcava olio o triaca in gola,
  E chi butirro o liquefatto grasso.
  Avea quasi perduta la parola,
  428E per tanti rimedi era già lasso;
  Quand’ecco un’improvvisa cacarola
  Che con tanto furor proruppe abbasso,
  Che l’ambra scoppiò fuor per gli calzoni,
  432E scorse per le gambe in sui talloni.

LIV.


Oh possanza del Ciel! che cosa è questa,
  Disse un barbier quando sentì l’odore?
  Questo è un velen mortifero ch’appesta;
  436Io non sentii giammai puzza maggiore.
  Portatel via, che s’egli in piazza resta,
  Appesterà questa città in poche ore.
  Così dicea; ma tanta era la calca,
  440Ch’ebbe a perirvi il medico Cavalca.7

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