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UNDECIMO 201

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XLVII.


Che versi non ho io tanto sonori,
  Che bastino a cantar sì belle cose:
  E torno a Titta che già uscendo fuori
  380Poichè alla tenda sua l’armi depose,
  Pel campo se ne gía sbuffando orrori
  Con sembianze superbe e dispettose;
  Quando accertato fu che la ferita
  384Del Conte nel cercar s’era smarrita.

XLVIII.


Qual leggiero pallon di vento pregno,
  Per le strade del ciel sublime alzato,
  Se incontra ferro acuto, o acuto legno,
  388Si vede ricader vizzo e sfiatato;
  Tale il Romano altier che fea disegno
  D’essersi con quel colpo immortalato,
  Sgonfiossi a quell’avviso; e di cordoglio,
  392Parve un topo caduto in mezzo all’oglio.

XLIX.


Ma il padrin ch’era accorto, il confortava,
  E dicea: Titta mio, non dubitare:
  Non è bravo oggidì se non chi brava,
  396E come diciam noi, chi sa sfiondare.
  Se per vinto e per morto or or si dava
  Il Conte, e al padiglion si fea portare;
  Perchè non possiam noi per tale ancora
  400Nominarlo alle genti in campo e fuora?

L.


A te deve bastar ch’egli sia vinto
  Al primo colpo tuo: che s’ei non muore,
  Non fu il tuo fin ch’ei rimanesse estinto,
  404Ma sol di rimaner tu vincitore.
  Lascia correr la fama: o vero o finto
  Che sia questo successo, egli è a tuo onore;
  Ed io farò ch’immortalato resti
  408Dalla musa gentil di Fulvio Testi.9

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