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capitolo secondo. | 75 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Le confessioni di un ottuagenario I.djvu{{padleft:102|3|0]]in tavola; e il capitano, che diceva di aver sempre contraria la fortuna, andava in cucina a giocar all’oca col cavallante o con Fulgenzio. In fondo in fondo io credo che la posta di due soldi quale la si costumava in tinello fosse troppo arrischiata per lui; e si trovava meglio col bezzo e col bezzo e mezzo di cucina. Io intanto, dopo aver giocato colla Pisana fino al cader del sole, quando la Faustina la prendeva per metterla a letto, mi incantucciava sotto la cappa a farmi contar fiabe da Martino o da Marchetto. E così si tirava innanzi finchè la testa mi ciondolava sul petto, e allora Martino mi prendeva pel braccio, e passando dal cortile per non attraversar il tinello, mi conduceva su per le scale fino alla porta di Faustina. Lì io entrava tentennando e sfregolandomi gli occhi; e sbottonate le brache, con una squassata era bell’e svestito e pronto a coricarmi, perchè nè scarpe, nè panciotto, nè calze, nè mutande, nè pezzuola da collo mi imbrogliarono mai fino all’età di dieci anni; e una giacchetta e un pajo di brache, di quel mezzolano che tessevano in casa per la servitù componevano insieme ad una corda per legar la coda ogni mio arredo personale. Aveva di più alcune camiicie, le quali colla loro sovrabbondanza pagavano ogn’altro difetto, poichè era monsignore che mi passava le sue quand’erano sdrucite; e nessuno si prendeva la briga di racconciarmele se non accorciando d’un poco la campana e le maniche. Quanto alla testa, un inverno che gelava molto, credo fossi allora sui sett’anni, Mastro Germano me l’avea guernita con un berrettone di pelo portato da lui già fin da quando era bulo a Ramuscello. Quel berrettone mi sarebbe calato fino al mento, se il Piovano non mi avesse già prima d’allora preparato le orecchie a impedirgli di cedere alla forza di gravità. Per di dietro per altro, ove non aveva orecchie, esso mi cascava fino sul collo, e Martino diceva che con quel coso in capo io gli aveva viso d’una gatta arruffata. Ma