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capitolo terzo. | 145 |
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quando discesi in cucina, mia prima cura fu quella di cercarla. La famiglia avea finito il pranzo allora allora; e monsignore incontrandomi per la scala mi accarezzò il mento contro ogni suo solito, e mi guardò le ammaccature della fronte, le quali poi non erano quel gran malanno. Egli mi disse, che non doveva essere quella peste che mi credevano, se il dolore di esser reputato bugiardo mi faceva dare in simili violenze contro me stesso; ma mi raccomandò di usare più discrezione in avvenire, di offerire a Dio le mie tribolazioni, e di imparare la seconda parte del confiteor. Nelle benigne parole di monsignore io riconobbi il buon animo della Clara, la quale aveva dato quell’edificantissima ragione delle mie stramberie, e così, se non il perdono completo, mi fu almeno concessa una clemente dimenticanza. Seppi in seguito da Marchetto, che il signor Lucilio mi aveva dipinto come un ragazzo molto timido e permaloso, facile ad esser abbattuto anche nelle forze e nella salute da un qualunque dispiacere; e tra lui e la Clara tanta malleveria diedero della mia sincerità, che la contessa non volle insistere ad accusarmi di doppiezza. Peraltro ella si tolse la briga d’interrogare Germano; ma questi imboccato forse da Martino, rispose che avea bensì udito la notte prima lo scalpitar d’un cavallo, ma buona pezza dopo il mio ritorno a Fratta, sicchè non era possibile che con quel cavallo io fossi venuto. Allora la testimonianza di Fulgenzio fu lasciata là, ed io rimasi colla mia pace, e non caddi più nella necessità di dover mentire per delicatezza di coscienza. Debbo tuttavia soggiungere che quella che parrà a taluni frivola e cocciuta ostinazione di fanciullo, a me sembrò fin d’allora e la sembra tuttavia una bella prova di fedeltà e di gratitudine. Fu allora la prima volta che l’animo mio ebbe a lottare fra piacere e dovere; nè io titubai un istante ad appigliarmi a quest’ultimo. Se il dovere in quel caso non era poi tanto stringente, poichè nè la rac-
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