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capitolo quarto. | 193 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Le confessioni di un ottuagenario I.djvu{{padleft:220|3|0]]per sapere quanta verità si ascondesse in quelle minacciose amplificazioni.
Una sera che il portinaio avea bevuto oltre il dovere, lo tirò tanto in lingua, che uscì affatto dai gangheri, e cantò e gridò su tutti i toni che il signor castellano di Venchieredo la mettesse via, se no egli, povero spazzaturaio, avrebbe messo fuori certe storie vecchie che gli avrebbero dato la mala Pasqua. Fulgenzio non chiedeva forse di più. Egli si studiò allora di divertire il discorso da quella faccenda, tantochè le parole del cionco o non fecero caso, o le parvero mattie da ubriacone. Egli poi si ritrasse a casa a recitare il rosario colla moglie ed i bimbi. Ma il giorno seguente, essendo mercato a Portogruaro, vi andò di buon mattino, e ne tornò più tardi del solito. Fu veduto anche colà entrare dal vice-capitano di giustizia; ma essendo egli, come dissi, un mezzo scriba di cancelleria, non se ne fecero le meraviglie. Il fatto sta che otto giorni dopo, quando appunto s’erano incominciate colla curia le pratiche per mandar il cappellano a respirar l’aria montanina, la cancelleria di Fratta ricevette da Venezia ordine preciso e formale di desistere da ogni atto ulteriore, e di istituire invece un processo inquisitorio e segreto sulla persona di mastro Germano, intorno a certe rivelazioni importantissime alla Signoria ch’egli poteva e doveva fare sulla vita passata dell’illustrissimo signor giurisdicente di Venchieredo. Un aereolito che piombasse dalla luna ad interrompere le gaie gozzoviglie d’una brigata di buontemponi, non avrebbe recato più stupore e sgomento di quel decreto. Il conte e il cancelliere perdettero la bussola, e si sentirono mancar sotto la terra: e siccome nel primo sbigottimento non avean pensato a rinchiudersi nel riserbo abituale, così la paura della contessa e di monsignore, e la gioia del resto della famiglia dimostrata per mille modi a quell’annunzio peggiorarono di tre doppi lo stato deplorabile del loro animo.