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CAPITOLO SESTO.
Nel quale si legge un parallelo fra la Rivoluzione Francese e la tranquillità patriarcale della giurisdizione di Fratta. — Gli eccellentissimi Frumier si ricoverano a Portogruaro. — Crescono la mia importanza, la mia gelosia, la mia sapienza di latino, sicchè mi mettono per graffiacarte in Cancelleria. — Ma la comparsa a Portogruaro del dotto Padre Pendola, e del brillante Raimondo di Venchieredo mi mette in maggior pensiero.
Gli anni che al castello di Fratta giungevano e passavano l’uno uguale all’altro, modesti e senza rinomanza come umili campagnuoli, portavano invece a Venezia e nel resto del mondo nomi famosi e terribili. Si chiamavano 1786, 1787, 1788; tre cifre che fanno numero al pari delle altre, e che pure nella cronologia dell’umanità resteranno come i segni d’uno de’ suoi principali rivolgimenti. Nessuno crede ora che la rivoluzione francese sia stata la pazzia d’un sol popolo. La Musa imperiale della storia ci ha svelato le larghe e nascoste radici di quel delirio di libertà, che dopo avere lungamente covato negli spiriti, irruppe negli ordini sociali, cieco sublime inesorabile. Dove tuona un fatto, siatene certi, ha lampeggiato un’idea. Soltanto la nazione francese, spensierata e impetuosa, precipita prima delle altre dalla dottrina all’esperimento: fu essa chiamata il capo dell’umanità, e non ne è che la mano; mano ardita, distruggitrice, che sovente distrusse l’opera propria, mentre nella mente universale dei popoli se ne maturava più saldo il disegno. A Venezia, come in ogni altro stato d’Europa, cominciavano le opinioni a sgusciare dalle nicchie famigliari per aggirarsi nella cerchia più vasta dei negozii civili; gli uomini si sentivano cittadini, e come tali interessati al buon governo