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CAPITOLO OTTAVO
Nel quale si discorre delle prime rivoluzioni italiane, dei costumi della scolaresca padovana, del mio ritorno a Fratta, e della cresciuta gelosia per Giulio Del Ponte. Come i morti possano consolare i vivi, ed i furbi convertire gl’innocenti. Il padre Pendola affida la mia innocenza all’avvocato Ormenta di Padova. Ma non è oro tutto quello che luce.
Francia aveva decapitato un re e abolito la monarchia: il muggito interno del vulcano annunziava prossima un’eruzione: tutti i vecchi governi si guardavano spaventati, e avventavano a precipizio i loro eserciti per sopire l’incendio nel suo nascere: non combattevano più a vendetta del sangue reale, ma a propria salute. Respinti dal furore invincibile delle legioni repubblicane, già Nizza e Savoja, le due porte occidentali d’Italia, sventolavano il vessillo tricolore; già si conosceva la forza degli invasori nella grandezza delle promesse; e l’urgenza maggiore del pericolo negli interni sobbollimenti. Alleanze e trattati si preparavano ovunque: Napoli e il Papa si riscotevano delle vergognose paure; la vecchia Europa, destata nel suo sonno quasi da un fantasma sanguinoso, si dibatteva da un capo all’altro per scongiurarlo. Che faceva intanto la Serenissima Repubblica di Venezia? Lo stupido collegio de’ suoi savi avea decretato che la rivoluzione francese altro non dovea essere per loro che un punto accademico di storia; avea rigettato qualunque proposta d’alleanza d’Austria, di Torino, di Pietroburgo, di Napoli, e persuaso il senato di appigliarsi unanimemente al nullo e ruinoso partito della neutralità disarmata. Indarno strepitando l’aulica eloquenza di Francesco Pesaro, il 26 gennaio 1793, Gerolamo Zittiani Savio di settimana, vinse il partito che Giovanni Iacob fosse riconosciuto ambasciatore della Repub-