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434 le confessioni d’un ottuagenario.

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Le confessioni di un ottuagenario I.djvu{{padleft:461|3|0]]titudine; ma io ne ebbi orrore, mi rivolsi precipitosamente, e lasciando il Venchieredo guardar la carrozza che si dileguava, presi a braccetto il Del Ponte, e lo trassi lunge da quella casa. Questi mi seguiva a malincuore, ansava come un naufrago che sta per perdere l’ultima tavola, e teneva la testa rivolta ostinatamente ad osservare la contentezza del fortunato rivale.

— Giulio, che fai? — gli dissi scuotendolo. — Ritorna in te! abbracciami! non mi hai ancora salutato!... 

Mi guardò quasi trasognato, indi, poichè fummo nel buio d’una calle remota, mi mise le braccia intorno al collo senza parlare nè piangere. Così non ci eravamo lasciati. Egli allora trionfante e felice non s’avvedeva di me misero ed avvilito; m’avea fatto della mano un cenno di commiato, quasi di protezione e di pietà; io non avea nè voluto nè potuto stringere la mano di chi mi rubava la ricchezza dell’anima mia. Oh quanto mutati ci ricongiungeva la fortuna! Io sotto il peso d’un doppio disinganno aveva il coraggio di compatire a lui più che a me stesso: a lui decaduto dalla ricca noncuranza del trionfo alla mendicità della sventura, a lui tanto crudele e nocivo contro di me un anno prima, quanto a lui stesso lo era allora Raimondo.

— Giulio, che fai? — tornai ancora a dire sollevandogli la fronte. — Tu vuoi ammalarti, e ci riesci a forza di esser crudo e spietato in te stesso. 

— Voglio ammalarmi?... No, no, Carlo — rispose egli con voce fioca e straziante: — voglio anzi guarire, voglio vivere! voglio che la giovinezza rifiorisca sul mio volto, che le allegre immagini si ricoloriscano alla mente, che l’anima si rigonfii come la gemma del rosajo al soffio primaverile, e che trabocchi fuori in lieti discorsi, in frizzi faceti, in cantici smaglianti di amore, di poesia! Voglio che la luce scacci dal mio volto le tenebre della melanconia, e il bel

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