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capitolo decimo. 459

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Le confessioni di un ottuagenario I.djvu{{padleft:486|3|0]]promesso di scrivermi di tanto in tanto; io l’avea lasciata promettere, e sapeva fin d’allora quanto dovessi fidarmi alla sua parola. Infatti trascorsero parecchi mesi senza ch’io avessi sentore di lei, e soltanto sul cader della state mi pervenne una lettera strana, assurda, scarabocchiata, nella quale la veemenza dell’affetto e l’umiltà delle espressioni mi compensavano un poco della passata trascuranza. Ma sarebbe stato compenso per tutt’altri che per me. Io conosceva quella testolina vulcanica; e sapeva che sfogato quel suo impeto di pentimento e di tenerezza, sarebbe tornata per Dio sa quanto tempo all’indifferenza di prima. Alcuni versi di Dante mi stavano fitti in capo come tanti coltelli avvelenati....


. . . . . . . . . . . indi s’apprende
Quanto in femmina il foco d’amor dura
Se l’occhio o il tatto spesso nol raccende.


Quel piccolo Dantino io l’avea pescato nel mare magnum di libracci, di zibaldoni e di registri donde la Clara anni prima avea raccolto la sua piccola biblioteca. E a lei quel libricciuolo roso e tarlato, pieno di versi misteriosi, di abbreviature più misteriose ancora, e di immagini di dannati e di diavolerie, non avea messo nessunissima voglia. A me invece che l’avea sentito lodare e citare a Portogruaro ed a Padova più o meno a sproposito, parve trovare un gran tesoro; e cominciai ad aguzzarvi entro i denti, e per la prima volta giunsi fino al canto di Francesca, che il diletto era minore d’assai della fatica. Ma in quel punto cominciai ad innamorarmene. Piantai i piedi al muro, lo lessi fino alla fine; lo rilessi godendo di ciò che capiva allora, e prima mi era paruto non intelligibile. Insomma finii col venerare in Dante una specie di Nume domestico; e giurava tanto in suo nome, che perfino quei due versi citati poco fa mi sembravano articoli del credo. Notate che allora non s’impazziva ancora pel trecento; e che nè il Monti avea

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