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capitolo decimosesto. | 227 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Le confessioni di un ottuagenario II.djvu{{padleft:235|3|0]]— Qual maniera, capitano?
— Quella dei datteri, che fanno all’amore l’uno in Sicilia e l’altro in Barberia. —
Io ne risi un poco di questo paragone; ma in fondo in fondo quando si veniva sul discorso di guaj amorosi ci aveva pochissima voglia di ridere. Siccome poi non reputava il signor Ettore maestro consumato in tali faccende, e del resto gli voleva bene assai, così mi presi la libertà di suggerirgli un consiglio.
— Offendetela nella superbia, — gli dissi; — improvvisatele una rivale.
— Vedrò, — soggiuns’egli — intanto tu raggiungi i nostri ad Ancona. A Roma ti saprò dire della bontà o no del tuo consiglio, che mi ha idea d’esser molto vecchio e corrotto dal lungo uso.
— Sapienza vecchia dà frutto nuovo, io replicai. — E corsi via per vedere così all’ingrosso Firenze, prima di ripartire per le Marche. A Firenze tutto mi piacque meno l’Arno, che per avere così bel nome, è molto piccolo fiume. Però giustizia vuole si osservi, che tutti i fiumi soffrono dal più al meno un tal calo sopra i meriti decretati loro dalla fama. Io trovai soltanto il Tamigi che attenesse la promessa; ed anco fui avvilito di vederlo andare a ritroso ad un minimo buffo d’aria. Per un così immenso fiume l’è invero arrendevolezza schifosa! Ma quanti uomini grossi che somigliano al Tamigi! Quante donne che somigliano a Londra! Vi fu un pacioloso Padovano che in una nota barcarola cantava alla sua bella:
Vieni, somiglia a Londra,
Sei un basin d’amor!
Egli non avrebbe creduto che io sudassi tanto un giorno per giustificare la lezione un po’ arrischiata della sua strofa.