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La mia tesi non potea trattarsi in breve, e fu soggetto di cinque o sei altre lunghe lettere, a ciascuna delle quali mi veniva risposto un laconico ringraziamento, accompagnato da qualche declamazione estranea al tema, ora imprecando i suoi nemici, ora ridendo d’averli imprecati, e dicendo esser naturale che i forti opprimano i deboli, e non rincrescergli altro che di non essere forte, ora confidandomi i suoi amori, e l’impero che questi esercitavano sulla sua tormentata immaginativa.

Nondimeno, all’ultima mia lettera sul Cristianesimo, ei diceva che mi stava apparecchiando una lunga risposta. Aspettai più d’una settimana, ed intanto ei mi scriveva ogni giorno di tutt’altro, e per lo più d’oscenità.

Lo pregai di ricordarsi la risposta di cui mi era debitore, e gli raccomandai di voler applicare il suo ingegno a pesar veramente tutte le ragioni ch’io gli avea portate.

Mi rispose alquanto rabbiosamente, prodigandosi gli attributi di filosofo, d’uomo sicuro, d’uomo che non avea bisogno di pesare tanto per capire che le lucciole non erano lanterne. E tornò a parlare allegramente d’avventure scandalose.


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