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Capo XLV.

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Simile stato era una vera malattia; non so se debba dire, una specie di sonnambulismo. Era senza dubbio effetto d’una grande stanchezza, operata dal pensare e dal vegliare.

Andò più oltre. Le mie notti divennero costantemente insonni e per lo più febbrili. Indarno cessai di prendere caffè la sera; l’insonnia era la stessa.

Ma pareva che in me fossero due uomini, uno che voleva sempre scriver lettere, e l’altro che voleva far altro. Ebbene, diceva io, transigiamo, scrivi pur lettere, ma scrivile in tedesco; così impareremo quella lingua.

Quindi in poi scriveva tutto in un cattivo tedesco. Per tal modo almeno feci qualche progresso in quello studio.

Il mattino, dopo lunga veglia, il cervello spossato cadeva in qualche sopore. Allora sognava, o piuttosto delirava, di vedere il padre, la madre o altro mio caro disperarsi sul mio destino.

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