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— Di quelli che non sono usciti, diss’io, le condanne son dunque venute. E che s’aspetta a palesarcele? Forse che il povero Ressi muoia, o sia in grado d’udire la sentenza, non è vero?

— Credo di sì.

Tutti i giorni, io dimandava dell’infelice.

— Ha perduto la parola; — l’ha riacquistata, ma vaneggia e non capisce; — dà pochi segni di vita; — sputa sovente sangue, e vaneggia ancora; — sta peggio; — sta meglio; — è in agonia. —

Tali risposte mi si diedero per più settimane. Finalmente una mattina mi si disse: — È morto! —

Versai una lagrima per lui, e mi consolai pensando ch’egli aveva ignorata la sua condanna!

Il dì seguente, 21 febbraio (1822), il custode viene a prendermi, erano le dieci antimeridiane. Mi conduce nella sala della Commissione, e si ritira. Stavano seduti, e si alzarono, il presidente, l’inquisitore e i due giudici assistenti.

Il presidente, con atto di nobile commiserazione, mi disse che la sentenza era venuta, e che il giudizio era stato terribile, ma già l’Imperatore l’aveva mitigato.

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