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Poi continuò una lunga predica: — I superbi fanno consistere la loro grandezza in non esporsi a rifiuti, in non accettare offerte, in vergognare di mille inezie. Alle eseleyen! tutte asinate! vana grandezza! ignoranza della vera dignità! E la vera dignità sta, in gran parte, in vergognare soltanto delle male azioni! —
Disse, uscì, e fece un fracasso infernale colle chiavi.
Rimasi sbalordito. — Eppure quella rozza schiettezza, dissi, mi piace. Sgorga dal cuore come le sue offerte, come i suoi consigli, come il suo compianto. E non mi predicò egli il vero? A quante debolezze non do io il nome di dignità, mentre non sono altro che superbia? —
All’ora di pranzo, Schiller lasciò che il condannato Kunda portasse dentro i pentolini e l’acqua, e si fermò sulla porta. Lo chiamai.
— Non ho tempo, — rispose asciutto asciutto.
Discesi dal tavolaccio, venni a lui, e gli dissi: — Se volete che il mangiare mi faccia buon pro', non mi fate quel brutto ceffo.
— E qual ceffo ho a fare? dimandò, rasserenandosi.
— D’uomo allegro, d’amico, risposi.