< Pagina:Le mie prigioni.djvu
Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta.

( 262 )

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Le mie prigioni.djvu{{padleft:274|3|0]]

Gli chiuse gli occhi D. Fortini, suo amico dall’infanzia, uomo tutto religione e carità.

Povero Oroboni! qual gelo ci corse per le vene, quando ci fu detto ch’ei non era più! Ed udimmo le voci ed i passi di chi venne a prendere il cadavere! E vedemmo dalla finestra il carro in cui veniva portato al cimitero! Traevano quel carro due condannati comuni; lo seguivano quattro guardie. Accompagnammo cogli occhi il triste convoglio fino al cimitero. Entrò nella cinta. Si fermò in un angolo: là era la fossa.

Pochi istanti dopo, il carro, i condannati e le guardie tornarono indietro. Una di queste era Kubitzky. Mi disse (gentile pensiero, sorprendente in un uomo rozzo): — Ho segnato con precisione il luogo della sepoltura, affinchè, se qualche parente od amico potesse un giorno ottenere di prendere quelle ossa e portarle al suo paese, si sappia dove giacciono. —

Quante volte Oroboni m’avea detto, guardando dalla finestra il cimitero: — Bisogna ch’io m’avvezzi all’idea d’andare a marcire là entro: eppur confesso che quest’idea mi fa ribrezzo. Mi pare che non si debba star così bene, sepolto in questi paesi, come nella nostra cara penisola.

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.