< Pagina:Le mie prigioni.djvu
Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta.

( 302 )

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Le mie prigioni.djvu{{padleft:314|3|0]]

M’applicai quindi ad imitare, quant’io sapea, la sua virtù.

Non v’è dubbio che ogni condizione umana ha i suoi doveri. Quelli d’un infermo sono la pazienza, il coraggio e tutti gli sforzi per non essere inamabile a coloro che gli sono vicini.

Maroncelli, sulle sue povere grucce, non avea più l’agilità d’altre volte, e rincresceagli, temendo di servirmi meno bene. Ei temeva inoltre che, per risparmiargli i movimenti e la fatica, io non mi prevalessi de’ suoi servigi quanto mi abbisognava.

E questo veramente talora accadeva, ma io procacciava che non se n’accorgesse.

Quantunque egli avesse ripigliato forza, non era però senza incomodi. Ei pativa, come tutti gli amputati, sensazioni dolorose ne’ nervi, quasiché la parte tagliata vivesse ancora. Gli doleano il piede, la gamba ed il ginocchio ch’ei più non avea. Aggiungeasi che l’osso era stato mal segato, e sporgeva nelle nuove carni, e facea frequenti piaghe. Soltanto dopo circa un anno il tronco fu abbastanza indurito e più non s’aperse.

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.