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SONETTO CXXXIII.

S
’io fossi stato fermo alla spelunca

  Là dov'Apollo diventò profeta;
  Fiorenza avria fors'oggi il suo Poeta,
  4Non pur Verona, e Mantoa, e Arunca:
Ma perchè ’l mio terren più non s’ingiunca
  Dell’umor di quel sasso; altro pianeta
  Conven ch’i’ segua, e del mio campo mieta
  8Lappole, e stecchi con la falce adunca.
L’oliva è secca; e è rivolta altrove
  L’acqua che di Parnaso si deriva:
  11Per cui in alcun tempo ella fioriva.
Così sventura, ovver colpa mi priva
  D’ogni buon frutto, se l’eterno Giove
  14Della sua grazia sopra me non piove.


SONETTO CXXXIV.

Q
Uando Amor' i begli occhi a terra inchina

  E i vaghi spirti in un sospiro accoglie
  Con le sue mani; e poi in voce gli scioglie,
  4Chiara, soave, angelica, divina;
Sento far del mio cor dolce rapina,
  E sì dentro cangiar pensieri, e voglie,
  Ch’i’ dico, Or sien di me l’ultime spoglie,
  8Se ’l ciel sì onesta morte mi destina:
Ma ’l suon che di dolcezza i sensi lega,
  Col gran desir d’udendo esser beata
  11L’anima al dipartir presta raffrena.
Così mi vivo, e così avvolge, e spiega
  Lo stame della vita che m’è data,
  14Questa sola fra noi del ciel Sirena.

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