< Pagina:Le rime di M. Francesco Petrarca I.djvu
Questa pagina è ancora da trascrivere o è incompleta.
218 S E C O N D A

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Le rime di M. Francesco Petrarca I.djvu{{padleft:301|3|0]]

SONETTO CCLXVI.

I
pensava assai destro esser su l’ale,

  Non per lor forza, ma di chi le spiega,
  Per gir cantando a quel bel nodo eguale
  4Onde Morte m’assolve, Amor mi lega.
Trovaimi a l’opra via più lento et frale
  D’un picciol ramo cui gran fascio piega,
  Et dissi: - A cader va chi troppo sale,
  8Nè si fa ben per huom quel che ’l ciel nega. -
Mai non poria volar penna d’ingegno,
  Nonchè stil grave o lingua, ove Natura
  11Volò, tessendo il mio dolce ritegno.
Seguilla Amor con sì mirabil cura
  In adornarlo, ch’i’ non era degno
  14Pur de la vista: ma fu mia ventura.


SONETTO CCLXVII.

Q
Uella per cui con Sorga ò cangiato Arno,

  Con franca povertà serve richezze,
  Volse in amaro sue sante dolceze,
  4Ond’io già vissi, or me ne struggo et scarno.
Da poi più volte ò riprovato indarno
  Al secol che verrà l’alte belleze
  Pinger cantando, a ciò che l’alme et preze:
  8Nè col mio stile il suo bel viso incarno.
Le lode mai non d’altra, et proprie sue,
  Che ’n lei fur come stelle in cielo sparte,
  11Pur ardisco ombreggiare, or una, or due:
Ma poi ch’i’ giungo a la divina parte
  Ch’un chiaro et breve sole al mondo fue,
  14Ivi manca l’ardir, l’ingegno et l’arte.


    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.