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D’AMORE CAP. II. 273

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Avend’io in quel sommo uom tutto ’l cor messo,
  Tanto ch’a Lelio ne dò vanto a pena,
  Ovunque fur sue insegne, e fui lor presso.
A lui Fortuna fu sempre serena,
  35Ma non già quanto degno era il valore,
  Del qual più d’altro mai l’alma ebbe piena.
Poi che l’arme romane a grande onore
  Per l’estremo occidente furo sparse,
  Ivi n’aggiunse e ne congiunse Amore;
40Né mai più dolce fiamma in duo cori arse,
  Né farà, credo. Omè, ma poche notti
  Fur a tanti desir sì brevi e scarse,
Indarno a marital giogo condotti,
  Ché del nostro furor scuse non false,
  45E i legittimi nodi furon rotti.
Quel che sol più che tutto ’l mondo valse
  Ne dipartì con sue sante parole,
  Ché di nostri sospir nulla gli calse;
E benché fosse onde mi dolse e dole,
  50Pur vidi in lui chiara virtute accesa,
  Ché ’n tutto è orbo chi non vede il sole.
Gran giustizia agli amanti è grave offesa:
  Però di tanto amico un tal consiglio
  Fu quasi un scoglio a l’amorosa impresa.
55Padre m’era in onore, in amor figlio,
  Fratel negli anni; onde obedir convenne,
  Ma col cor tristo e con turbato ciglio.
Così questa mia cara a morte venne,
  Che vedendosi giunta in forza altrui,
  60Morir in prima che servir sostenne:
Et io del dolor mio ministro fui,
  Ché ’l pregator e i preghi eran sì ardenti
  Ch’offesi me per non offender lui,
E manda’ le ’l velen con sì dolenti
  65Pensier, com’io so bene, et ella il crede,
  E tu, se tanto o quanto d’amor senti.

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