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D’AMORE CAP. II. | 273 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Le rime di M. Francesco Petrarca I.djvu{{padleft:356|3|0]]
Avend’io in quel sommo uom tutto ’l cor messo,
Tanto ch’a Lelio ne dò vanto a pena,
Ovunque fur sue insegne, e fui lor presso.
A lui Fortuna fu sempre serena,
35Ma non già quanto degno era il valore,
Del qual più d’altro mai l’alma ebbe piena.
Poi che l’arme romane a grande onore
Per l’estremo occidente furo sparse,
Ivi n’aggiunse e ne congiunse Amore;
40Né mai più dolce fiamma in duo cori arse,
Né farà, credo. Omè, ma poche notti
Fur a tanti desir sì brevi e scarse,
Indarno a marital giogo condotti,
Ché del nostro furor scuse non false,
45E i legittimi nodi furon rotti.
Quel che sol più che tutto ’l mondo valse
Ne dipartì con sue sante parole,
Ché di nostri sospir nulla gli calse;
E benché fosse onde mi dolse e dole,
50Pur vidi in lui chiara virtute accesa,
Ché ’n tutto è orbo chi non vede il sole.
Gran giustizia agli amanti è grave offesa:
Però di tanto amico un tal consiglio
Fu quasi un scoglio a l’amorosa impresa.
55Padre m’era in onore, in amor figlio,
Fratel negli anni; onde obedir convenne,
Ma col cor tristo e con turbato ciglio.
Così questa mia cara a morte venne,
Che vedendosi giunta in forza altrui,
60Morir in prima che servir sostenne:
Et io del dolor mio ministro fui,
Ché ’l pregator e i preghi eran sì ardenti
Ch’offesi me per non offender lui,
E manda’ le ’l velen con sì dolenti
65Pensier, com’io so bene, et ella il crede,
E tu, se tanto o quanto d’amor senti.