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112 | CAPITOLO TERZO |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Leila (Fogazzaro).djvu{{padleft:124|3|0]]chiuse gli occhi e soffiò come se gli avessero offerto un bicchiere d’olio di ricino; il cappellano mormorò: «arciprete!» e si fece vedere dal principale a giunger le mani, ad alzare lo sguardo al cielo, volendo insieme raccomandare all’uomo di star fermo e al Signore di tener l’uomo fermo. Dopo di che se ne andò frettoloso a capo basso. L’arciprete fece entrare donna Fedele, certo, come il cappellano, che venisse per parlargli di don Aurelio, delle istanze del popolo di Lago che si disponeva di ricorrere magari a Sua Santità perchè il curato non partisse.
III.
Donna Fedele era venuta dal villino delle Rose col suo solito calessino da nolo. Aveva incontrato Massimo poco oltre il ponte del Posina e gli aveva detto ridendo: «Vado dall’arciprete! Per il covo!». Le erano pervenute, per un tubo affatto simile a quello posto in opera fra la canonica e la Montanina, parecchie notizie interessanti e anche questa che, in canonica, il suo villino era stato qualificato, per causa di Carnesecca, un covo. Alla esortazione scherzosa di Massimo: «gliele canti!» aveva sorriso senza rispondere, col suo sorriso dolce quanto la voce. Svoltato il calessino a sinistra sulla salita, i nobili lineamenti avevano presa una espressione di tristezza. Non era il viso di chi avesse a cantarle a qualcheduno. Però il cuore lo era; e anche il cervello. Nel cuore, donna Fedele aveva un risentimento altero; qui c’entrava forse anche il famoso covo. Nel cervello aveva una collezione bene ordinata di parole fredde, chiare e dure, da mettere a posto, bisognando, in un altro cervello che non le dimenticasse; e qui il covo non c’entrava per nulla.