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L’incontro di Massimo le aveva fatto salire al viso un’ombra di malinconia. Non ci vedeva chiaro in quella faccenda. Vedeva Massimo esser preso ogni giorno più, questo sì; ma vedeva il signor Marcello inquieto e Lelia paurosamente enigmatica. Le pareva una creatura in lotta con sè stessa. Supponeva in lei un conflitto di sentimenti e, nel tempo stesso, più la conosceva, più si persuadeva che fosse orgogliosissima, che a voler influire sulle sue decisioni si farebbe peggio. S’era amicata Teresina, da Teresina aveva saputo il fatto dei fiori e delle finestre chiuse, non da prendere troppo sul serio, ma neppure da trascurare. L’idea di Teresina era che la ragazza fosse innamorata e che si vergognasse di esserlo, che si tenesse legata nell’onore alla memoria del povero signor Andrea, alla fiducia del signor Marcello. Insomma quell’ombra di malinconia saliva da un oscuro gruppo di dubbii, di pene, di supposizioni, di presentimenti.
Nel salotto della canonica, la siora Bettina e don Emanuele diedero alla visitatrice un’idea così viva di due polli spaventati che le sguisciassero a fianco lungo la parete, e le venne in mente così rosso certo bitorzolo sopra l’occhio sinistro dell’arciprete, che si colorava sempre quando egli era turbato, che un colpo di riso la strinse alla gola. Fu appena in tempo di rifarsi, entrando nello studio, un viso serio.
Il bitorzolo era scarlatto ma l’accoglienza fu espansiva. Il buon don Tita parve incapace di contenere nella propria persona, non sottile vaso, una miscela effervescente di sorpresa, di piacere e di ossequio. Don Tita non era un ipocrita, in quel momento. Alzandosi e movendo incontro alla signora con una sequela di: oh guarda guarda guarda! - Chi vedo chi vedo chi vedo! - Servitorsuo servitorsuo servitorsuo! — il