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Don Tita diventò rosso come un lampone.
«Io?» diss’egli. «Tutt’altro. Carità, signora! Carità, carità. Altro era la casa di un sacerdote, capirà, signora, altro è una casa laica.»
«Un covo laico» si mormorò donna Fedele fra i denti.
L’arciprete non potè udire ed ella confessò, sempre blanda, di non avere saputo, una volta, che i sacerdoti fossero meno obbligati dei laici alla carità. Oppose alle proteste di don Tita uno sguardo fisso e un silenzio altero.
Il povero don Tita, memore di aver detto che la magra signora era una Carnesecca peggiore di Gran Peste, lontano dal pensare che donna Fedele, se l’avesse saputo, se ne sarebbe tanto divertita da diventargli più benigna, stava sui carboni ardenti.
«Ma io» ella riprese «non sono venuta per parlarle di Pestagran nè d’altro dove c’entri Pestagran.»
«Ben, signora. Ben ben ben ben.»
L’arciprete disse così, concedendosi un piccolo sfogo di dialetto, ma pensò «male, male» perchè almeno quell’altra pillola era inghiottita e chi sa cosa diavolo avesse in pectore madama Carnesecca.
«Siccome Lei e io c’interessiamo di una stessa persona, sono venuta per domandarle una informazione che potrebbe, in certi casi, riguardare indirettamente questa persona.»
Adesso donna Fedele aveva parlato con voce chiara e piuttosto alta, articolando bene le parole e guardando risolutamente don Tita in faccia. Era una faccia attonita. Chi poteva essere questa persona? La Bettina, no. Il cappellano, meno. Che fosse proprio don Aurelio?
«Non è vero» chiese donna Fedele «che Lei s’interessa molto della signorina che sta in casa Trento?»
Don Tita, contento che non fosse venuto fuori don Aurelio, battè palma a palma.