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Tutta la faccia di don Tita prese il colore del bitorzolo.
«Ah La mi scusi poi tanto, signora» diss’egli con voce risentita, «ma questa poi... questa... oh...! oh!... oh!»
Dondolava il capo come sopra un perno, aggrottando le sopracciglia.
Si udì un flebile «con permesso» l’uscio fu aperto piano, ecco la delinquente col caffè e i pandoli per donna Fedele. Era una vecchietta grossa, dalla voce di pecora e dalla faccia furba. Posò il vassoio sulla scrivania e guardò il padrone, aspettando che si alzasse come il solito, imbrandisse il cucchiaino, e vociferasse «quanti, signora, quanti?». Il padrone si alzò ma non subito e lentamente. Le diede poi un’occhiata che la fece tremare di avere sbagliato portando il caffè. «Cape!» mormorò la povera donna, usa, come la Fantuzzo, appellarsi a quei lontani invisibili crostacei. Quella donna trasognata, ignara della propria situazione di lupus in fabula, quella faccia di don Tita, costretto a nutrire di caffè e pandoli una creatura odiosa che lo aveva insolentito, l’idea della scenata che doveva infallibilmente seguire, partita lei, fra serva e padrone, misero tanto di buon umore il piccolo demone comico annidato nel cervello di donna Fedele, che invece di rifiutare il caffè o almeno i pandoli, com’era stato il suo primo sentimento, ella prese dell’uno e degli altri, tanto per ridere più gustosamente della sorte amara di don Tita e per sorridere di sè stessa.
Però, dopo il caffè e i pandoli, smise di torturare il povero uomo. Donna Fedele capace di antipatie fiere, non sentiva per l’arciprete che indifferenza. Lo credeva piuttosto debole che doppio, piuttosto guasto da una educazione insufficiente e malsana che basso di natura, astuto sì ma di un’astuzia grossa, facile a penetrare; e ne riconosceva le qualità buone, il disinteresse, il desi-